Il virus, in cinque giorni, s’è portato via Carlo Franco. Al dolore per la perdita di un amico di lungo corso si aggiunge l’assurdo dispiacere di non aver potuto leggere una cronaca diretta della malattia, una volta guarito. Aveva ottantadue anni, Carlo, era il nostro decano. Il giornalismo per lui era passione, vita. Se l’era portato pure in casa, sposando Maria Teresa della gloriosa dinastia dei Campili.

Stava già preparando il prossimo pezzo, su don Aniello Manganiello.Aveva proposto una decina di servizi a Canale 21 di Gianni Ambrosino.  Il mestiere di raccontare fatti era  indispensabile come l’aria, era una specie di livella perché con un articolo, lui che si sentiva uno della strada, poteva fare tremare un potente, denunciare un imbroglio. Una volta accadeva. Era il tempo in cui si godeva a sporcarsi le mani con l’inchiostro della rotativa, a cogliere l’odore della carta.

Fino all’ultimo ha scritto dovunque ci fosse uno spazio, anche annotando pensieri su Facebook. Uno degli ultimi, quasi profetico: “Massimo Giannini ha centrato il tema di questo angoscioso momento: o contare i morti o contare i soldi. Di questo vorrei si parlasse ma in maniera più asciutta e nel rispetto della pietas. Riusciremo in questo ennesimo miracolo? Per dirla tutta e per onestà professionale lo ritengo poco probabile, ma gli italiani hanno dimostrato di avere più senso civico e morale di chi li amministra”.

Ha cominciato a ventisette anni e non era mai stanco, sgambettava come un guaglione, sorretto dalle esperienze di atleta. Conservava l’armadietto alla Canottieri Napoli, ogni tanto giocava ancora nella squadra di pallanuoto dei giornalisti. E’ passato al Roma, al  Mattino, a Repubblica, alla Rai, al Napolista e al Corriere del Mezzogiorno fino a ieri. Il Mattino, lo dico con orgoglio, restava il suo giornale. Era la prima lettura. Confrontava. Un giorno ci diede un grosso buco, diede in esclusiva la notizia della scomparsa di Anna Maria Ortese. Sono certo che sorrise. Non aveva rancore. Era andato in pensione,  e la pensione la riteneva ingiusta in sé.

Massimiliano Gallo, che l’ho avuto caro, racconta che Carlo  rinunciò a uno stipendio d’oro come Responsabile Comunicazione del Banco di Napoli di Ventriglia per tornare, dopo poche settimane, “alla vita di merda in redazione”, al Chiatamone. Diceva: “Quella è l’unica cosa che so fare, e poi là stavo morendo. Mi mancava l’aria”. Gli avevano assegnato l’autista, lui gli disse “Vado a piedi”.

In tanto tempo ha narrato Napoli, le sue facce, il suo sport, la sua politica. Abbiamo sfidato la distanza sociale nei giorni del terremoto del 1980. Io ascoltavo i cinquanta e passa inviati, li indirizzavo, raccoglievo le notizie e gliele passavo affinché della giornata scrivesse una “sintesi intelligente”, come voleva il direttore Roberto Ciuni. Il titolo “Fate presto” diventò virale, e sotto c’era il pezzo con la sua firma. Lo sfruculiavo: “Il titolo l’ho fatto io, e nei musei sei andato tu”.

Al Mattino fu anche capocronista e diresse le pagine della Cultura. Creò il Mattino del Sabato e, poiché amava selezionare i giovani, si circondò di talenti, da Francesco Durante ad Antonio Fiore, da Michele Buonomo a Titta Fiore, da Titti  Marrone al borsista Pietro Treccagnoli.

Si è sempre sentito un cronista, uno che deve sporcarsi le scarpe girando. Conosceva tutto e tutti, fatti seri e inciuci. Quando arrivava notizia di una storia importante, lui voleva starci dentro. Sophia Loren tornò a Pozzuoli e lui c’era. La prese sottobraccio e non si staccò mai, raro trovare una foto in cui la diva sta sola.

Aveva scritto: “A noi timidi, a noi scontrosi, non piacciono le cerimonie ma  in fondo, molto in fondo, sappiamo dare il giusto valore all'amicizia”.Amava poche cose ma implacabilmente: il mestiere, Massa Lubrense e Maria Teresa, alla quale va un abbraccio forte forte. Buon viaggio, Carlù.

Pietro Gargano

Tratto da un post di un mio amico  per ricordare uno tra i più grandi giornalisti degli ultimi 50 anni 

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